Vi siete mai chiesti perché alcune parole in due lingue che sembrano completamente diverse, in realtà siano uguali?

Prima di affrontare il discorso nel dettaglio, è necessaria una premessa: questo è un breve articoletto che ha come obiettivo quello di fornire le basi per la comprensione di un fenomeno linguistico – culturale davvero molto grande, che necessiterebbe di interi volumi per essere trattato al meglio (e con al meglio si intende approfonditamente, cioè quando si includono alla spiegazione tutte le premesse possibili e immaginabili). In questo caso, il focus è sul motivo storico dietro al fenomeno.

William the Conqueror: un francese inglese

Come sempre quando qualcosa riguarda la storia medievale inglese (perché sì, in questo caso tutto comincia dal medioevo) parte tutto da Guglielmo il Conquistatore, ai più conosciuto, e contando che ormai non si tende più a tradurre in italiano i nomi dei personaggi storici, come William the Conqueror. Ebbene, il caro William conquista l’Inghilterra nel 1066, strappa il regno ad Aroldo II (Harold Godwineson) conte di Wessex e vi impianta tutta la sua corte normanna. Et voilà, il danno è definitivamente fatto. Ma perché si può parlare di danno? E’ chiaro che qui non si vuole dare un vero e proprio giudizio storico, né tantomeno si vuole affermare che vi sia una qualche evoluzione nella storia dell’uomo, con momenti in cui si era più o meno primitivi opposti a momenti in cui si era più o meno civilizzati, no, non è questo il senso di danno. Danno in questo caso sta come avvio di un cambiamento. Guglielmo, infatti, era normanno, cioè francese, cioè vassallo del re di Francia. Poi che in futuro i re inglesi saranno più potenti del re di Francia stesso, questo è un altro discorso. Come tutti i vassalli francesi, egli parlava francese (o meglio, un francese romanzo, ancora in via di definizione) e come tutti i nobili francesi, aveva modi agendi e forma mentis francesi. In Inghilterra in quel momento vi era pochissimo di francese, anzi, quel poco di normanno che avevano era rappresentato da Emma di Normandia, madre di Edoardo il Confessore, il sovrano precedente ad Aroldo II (quello che – per capirci – designò Guglielmo, suo pronipote, successore e non Aroldo, cosa che portò alla battaglia di Hastings). I re inglesi erano anglosassoni, ciò significava un altro modo di fare, di pensare, di intendere il diritto e il concetto stesso di sovranità. William portò con sé un altro mondo. Una realtà in cui era il sovrano a dare ai suoi signori la terra in beneficio, cioè in cambio di un loro servizio, non dove i signori la possedevano perché era stata conquistata dai loro avi e, soprattutto, un universo culturale descritto in francese.

Lingua e modi di pensare: la linguistica e l’antropologia

Eh sì, perché come abbiamo visto sopra, la lingua influenza il modo di pensare. Nel descrivere il mondo lo si categorizza, lo si chiude in concetti che, in lingue diverse, si esprimono in maniera diversa. Un esempio facile per comprendere è  il genere del fiore. In italiano, il fiore, è maschile, in francese è femminile, la fiore (la fleur). Questo comporta un diverso modo di intendere la natura, tutta femminile, tutta legata in qualche modo a un universo materno. O ancora, in inglese piove tantissimo si può esprimere con it’s raining cats and dogs. Perché per noi devono piovere cani e gatti per dire che sta diluviando? Ha perfettamente senso, ma per loro. La lingua, dunque, influenza moltissimo il modo di percepire la realtà. Allo stesso modo, il normanno influenzò l’anglosassone all’epoca di Guglielmo. Cosa era detto in francese? Ogni cosa facesse riferimento al mondo francese. Dunque parole del campo lessicale della nobiltà, come madam, toilet, fourchette, courgette. La madam era la nobildonna, uno spazio per la pulizia personale (toilette in francese) ce lo avevano i nobili, le posate le usavano i nobili e le verdure le mangiavano i nobili, il popolo non pensava a come cucinare le zucchine ma a come impastare il pane.

A questo punto il discorso ricadrebbe nella linguistica, ma necessiterebbe un suo articolo approfondito. Quello che questo excursus voleva dimostrare era come fenomeni storici spesso classificati come “noiosi argomenti di un manuale da imparare a memoria” in realtà hanno delle conseguenze che si trascinano ancora oggi, ma che magari la maggioranza di noi non percepisce più. Si tratta qui, dunque, di imparare ad apprendere, non di apprendere in maniera passiva.

Bibliografia

  • ECO, U., Dire quasi la stessa cosa: Esperienze di traduzione, Bompiani, 2013
  •  BERRUTO, G. e CERRUTI, M., La linguistica. Un corso introduttivo, UTET Università, 2011
  •  LURAGHI, S., Introduzione alla linguistica storica, Carocci, 2006
  • CHESTER JORDAN, W., Nel nome del Signore. L’Europa dall’anno Mille alla fine del Medioevo, Editori Laterza, 2013.

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