Le politiche fasciste verso le donne furono costantemente condizionate dall’eredità delle istituzioni dello Stato liberale, oltre che dall’ambiente economico, sociale e culturale, in quanto il fascismo difendeva un ideale di donna dedicata al focolare domestico, relegata al suo destino di madre e succube dell’autorità patriarcale. Anche se queste restrizioni potevano apparire meno dure rispetto a quelle attuate in altri campi, fu proprio l’apparente normalità delle limitazioni delle libertà femminili a renderle particolarmente mistificanti, insidiose e avvilenti. D’altra parte, il fascismo sosteneva i diritti e i doveri delle donne nella costruzione di un forte Stato nazionale.
Fino all’inizio del nuovo secolo, la nazionalizzazione delle masse si riferiva essenzialmente agli uomini: soldati coraggiosi, contribuenti coscienziosi, lavoratori disciplinati, consumatori austeri ed elettori prevedibili (le donne erano largamente escluse da tutti questi campi d’intervento). Gli sforzi di coinvolgere gli uomini nei doveri di cittadinanza verso la nazione borghese erano accompagnati dal tentativo di istituzionalizzare la separatezza della sfera di vita delle donne. Il destino della nazione si fondava essenzialmente sulle abilità e le virtù del cittadino-soldato, mentre era compito delle donne custodire i valori della sfera privata. L’uomo agiva nella sfera pubblica ed esprimeva opinioni politiche; le donne erano il pilastro della casa, ed esprimevano i sentimenti dell’intimità. La virilità veniva pubblicamente esaltata, la femminilità era privatizzata e idealizzata. Con il XX secolo questa rigida divisione dei ruoli si fa ovunque difficilmente sostenibile. Con la Grande Guerra divenne chiaro che le donne stavano assumendo un ruolo assolutamente centrale nella costruzione della potenza dello Stato. In Italia, come negli altri paesi coinvolti nel conflitto, le donne vennero mobilitate come mai era accaduto fino a quel momento; per la prima volta, con la Grande Guerra, le donne diventano visibili a livello di massa in un ambito non domestico. Quelle delle classi superiori si arruolarono nella Croce Rossa e s’iscrissero al consiglio nazionale delle donne italiane, d’ispirazione patriottica e al contempo emancipazionista. Nel corso della guerra le donne italiane crearono reti associative, acquisirono maggiore sicurezza e abilità professionale, oltre a una maggiore dimestichezza nei confronti delle istituzioni dello Stato. Tutto lasciava credere che al termine della guerra, a ricompensa per i sacrifici e i servizi prestati, avrebbero acquisito diritti di cittadinanza analoghi a quelli degli uomini, dal voto alla parità sul mercato del lavoro, al pubblico riconoscimento dei contributi offerti alla società italiana. Le cose andarono però diversamente.
Il fascismo prese le mosse dall’assioma della diversità naturale tra uomini e donne, per affermare tale diversità in campo sociale e politico a vantaggio degli uomini. Su questa base fu costruito un nuovo sistema politico a svantaggio delle donne: ogni aspetto della loro vita fu commisurato agli interessi dello Stato e della dittatura, dalla definizione della cittadinanza femminile, al governo della sessualità, alla determinazione dei livelli salariali e delle forme di partecipazione alla vita sociale. In questo sistema, il riconoscimento dei loro diritti, in quanto cittadine, andò di pari passo con la negazione dell’emancipazione femminile, mentre le riforme volte alla protezione sociale delle madri e dei bambini si intrecciarono con le forme brutali di oppressione. L’atteggiamento assunto dal fascismo verso le donne, nell’arco del Ventennio, è stato in larga parte determinato dalle iniziative per il consolidamento del proprio potere. La politica demografica aveva l’obiettivo di stabilire un controllo sempre maggiore sul corpo delle donne, e in particolare sulla loro funzione riproduttiva; allo stesso tempo il regime cercava di restaurare i modelli familiari tradizionali basati sull’autorità maschile. A sostegno della politica di compressione salariale e dei consumi, la dittatura chiedeva alle donne di essere consumatrici moderate, organizzatrici efficienti dell’economia domestica, e di saper sfruttare a fondo le scarse possibilità offerte dal sistema dei servizi sociali; a questo si aggiunge il lavoro salariato, a tempo parziale o a domicilio, che serviva a contribuire al bilancio familiare. Mentre si crearono nuovi tipi di organizzazione che consentissero di soddisfare il desiderio d’impegno pubblico delle donne, si reprimevano le varie forme di solidarietà femminile e i valori di libertà, individuale e politica, in precedenza promossi dalle associazioni femministe.
Durante la dittatura, le emancipazioniste italiane avevano a mente come ideale e punto fermo la “donna nuova” del dopoguerra, ma avevano dovuto fronteggiare una situazione particolarmente complessa creata dalle manipolazioni del regime mussoliniano. Avevano dovuto imparare come rapportarsi alle gerarchie maschiliste, agli atteggiamenti militaristi, e come rendere compatibile il volontariato, praticato sotto la tutela delle organizzazioni cattoliche o femministe, con le burocrazie del nuovo Stato sociale. Il nuovo modo in cui le donne interagirono con la propria famiglia, con la società, con le altre donne, fu il risultato di un insieme di politiche riguardanti la crescita demografica, il mercato del lavoro, i programmi educativi, scolastici, culturali. Restavano comunque forti le differenze di classe e di cultura. La donna emancipata di città era lontana dalla donna di campagna, per la classe sociale, l’educazione e la tradizione, ma, soprattutto, e ancora più profondamente, dall’atto della procreazione e dalle sue conseguenze. Le differenze di classe tra le donne non furono mai così nette come sotto il fascismo. Ma le politiche antifemminili del regime toccavano tutte le donne, per quanto alta fosse la loro collocazione sociale e protetta la loro posizione personale.
– Chiara Montanaro e Rebecca Bini

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