A partire dalla fine del XIII (fino alla metà del XVI secolo circa), come conseguenza della nascita del
Purgatorio, si fanno strada nell’iconografia defunti dall’aspetto inquietante sotto forma di corpi in
stato di decomposizione o di spogli scheletri1 : è il macabro che dominerà la scena artistica fino alla
metà del Cinquecento, suo momento d’auge, poi dalla seconda metà del XVI secolo inizierà una
fase di decadimento, fino allo spegnimento definitivo.
In questo contributo ci occuperemo nello specifico del Triumphus Mortis, ma prima di tutto
bisogna partire dalla definizione stessa di ‘trionfo’. Il trionfo, nella Roma antica, indicava il
massimo onore tributato al comandante supremo in seguito ad una vittoria e il triumphator veniva
celebrato in modo solenne con un corteo, che dal Campo Marzio giungeva sino al Campidoglio. Ma
il termine significava anche, in modo più generico, vittoria come affermazione assoluta. Il Trionfo
della Morte è sì un trionfo, ma è la Morte, come forza distruttrice, a trionfare sulla Vita. Proprio sul
rapporto vita/morte, «Tenenti riconosce, in quest’orrore della morte, il segno dell’amore per la
vita (“la vita piena”)»2 e lo stesso Ariès si dichiara vicino a questa posizione. I temi macabri non
possono essere ridotti a «espressione di un’esperienza particolarmente violenta di morte in
un’epoca di grande mortalità e crisi economica»3 ; essi erano piuttosto emblema di un amore
appassionato per la vita e al tempo stesso della dolorosa consapevolezza della sua caducità e
fragilità alle soglie dell’Età della Rinascita 4 . Tuttavia, anche la Chiesa e gli ordini mendicanti si sono
serviti dei temi macabri per fini pastorali. Il diffondersi del regno del purgatorio e quindi della
possibilità di redenzione dell’anima nell’aldilà, infatti, costrinsero la Chiesa a concentrare la paura
non più sulla dannazione eterna, bensì sulla decomposizione fisica: «se il corpo, così bello, si disfa
in maniera orribile – volle dimostrare la Chiesa – se ognuno può essere esposto dopo morto al
ludibrio della corruzione, fino a trasformarsi in uno scheletro disseccato; e dunque, se le mete
laiche della vita sono così effimere che non valgon nulla, sarà bene non concentrarsi su di esse ma
ricordarsi dell’esistenza dell’anima e della sua sorte ultraterrena» 5 . Il termine, inoltre, ha un
significato simbolico di rappresentazione di trionfi o cortei trionfali, sia nella poesia (Trionfi di
Petrarca), sia nell’arte come raffigurazione, soprattutto pittorica o scultoria, volta a celebrare
personaggi illustri, virtù e santi, sia nell’ambito folkloristico del carnevale (soprattutto nei secoli XV-XVI), con carri trionfali rappresentanti divinità o personificazioni di virtù. Proprio nell’ambito del
carnevale del 1511 Vasari nella Vita di Piero di Cosimo 6 offre una descrizione di trionfo della Morte,
realizzata dal pittore stesso: «Era il trionfo un carro grandissimo tirato da bufoli tutto nero e
dipinto di ossa di morti, e di croci bianche, e sopra il carro era una morte grandissima in cima con
la falce in mano, et aveva in giro al carro molti sepolcri col coperchio, et in tutti que’ luoghi che il
trionfo si fermava a cantare s’aprivano et uscivano alcuni vestiti di tela nera, sopra la quale erano
dipinte tutte le ossature di morto nelle braccia, petto, rene e gambe, che il bianco sopra quel nero,
et aparendo di lontano alcune di quelle torcie con maschere che pigliavano col teschio di morto il
dinanzi e ‘l dirieto e parimente la gola, oltra al parere cosa naturalissima era orribile e spaventosa a vedere» 7 . La descrizione indugia, dunque, sull’aspetto spaventoso della figura vestita di nero che
si erge, trionfante e grandissima, sulla cima del carro con la caratteristica falce in mano.
Il tema iconografico si sviluppa nella seconda metà del Trecento in Occidente, in particolar modo
nell’area franco-tedesca e nella regione alpina, intrattenendo un forte legame con la Peste Nera
del 1348 – si pensi alle frecce e alle lance che vengono riproposte dagli artisti come allusione al
flagello che colpì fortemente la popolazione europea 8 . Si tratta, dunque, di un tema macabro,
estraneo al cristianesimo, che non «è quasi esistito prima del 1350» 9 . Esso si colloca nell’ambito di
una più generale rappresentazione della Morte da parte della sensibilità collettiva trecentesca.
Oltre al Trionfo della Morte, infatti, vi sono la Danza macabra e l’Incontro dei tre vivi e dei tre
morti. Ciascuno di questi costituisce un tema autonomo con caratteristiche proprie, anche se a
volte sono inseriti all’interno di un’unica opera sovrapponendosi, come avviene nel Trionfo di Clusone 10 .

La denominazione di Trionfo della Morte è successiva al Trecento e si deve al testo petrarchesco,
che costituisce una consacrazione letteraria del tema iconografico, e alla stessa fortuna
iconografica dei Trionfi petrarcheschi, il successo delle rappresentazioni della Morte nel secolo XV
e oltre 11 . Le rappresentazioni dei primi decenni del Trecento del Trionfo, personificazione della
Morte, mostrano un’iniziale incertezza e varietà che, successivamente, si precisano e si
impongono alla fine del secolo. L’iconografia insiste nel rappresentare la potenza trionfante della
Morte, che tuttavia è una forza distruttrice, la quale agisce ciecamente e indiscriminatamente,
facendo strage intorno a sé senza una funzione etico-morale. Molte rappresentazioni sono, infatti,
accomunate dalla pervasività sociale: tutti i ceti sociali sono coinvolti. Nelle rappresentazioni vi è la
Morte vittoriosa su cadaveri ammucchiati, su masse di persone, tra le quali si possono individuare
non solo gli umili e i poveri, come la figura del contadino, ma anche alti cardinali, il papa e
l’imperatore, vescovi, re. Ogni condizione sociale, dunque, viene rappresentata e lo spettatore può
riconoscersi nelle vittime 12 . Ne sono un esempio le rappresentazioni del tema di Palermo e quello
di Subiaco (Trionfo della Morte, metà XIV secolo, affresco, Sacro Speco, Subiaco).

La Morte giunge in modo improvviso: i personaggi indifesi sono colti di sorpresa dal suo arrivo,
tanto che in alcune rappresentazioni le figure stanno svolgendo determinate azioni. Questo
elemento sottolinea il carattere sconvolgente della morte e la sua subitaneità. Nel Trionfo di
Bruegel il Vecchio (ca. 1526/31 – 1569), in basso a destra, isolati dallo scenario apocalittico
rappresentato, vi sono due innamorati che suonano e cantano, senza rendersi conto dell’esercito
di scheletri variamente armati di falci, spade, frecce e lance 13 . In questa suggestiva interpretazione
del tema del Trionfo, inoltre, la Morte solitaria vista finora si frantuma in un mosaico di figure
scheletriche sulle quali domina, al centro della composizione, la Morte a cavallo di uno scheletrico
destriero che miete vite umane con la sua falce. All’interno della stessa opera vi è anche la Morte
alla guida di un carro, ma colmo di teschi. I vivi, invece, corrono a rifugiarsi in una cassa con una
croce sulla porta: in realtà essi corrono verso una grande bara.

Veniamo ora alla rappresentazione stessa della Morte. Sin dalle prime rappresentazioni la Morte è
stata associata al male, al demoniaco, tanto che i primi attributi sono ali, artigli, peli, che la
assimilano alle figure diaboliche del regno di Satana 14 . Ma un’associazione ancor più radicata nella
sensibilità collettiva e non casuale, riproposta anche dallo stesso Petrarca nel Triumphus mortis, è
quella della morte con la donna, essere temibile secondo una logica millenaria che la associa al
male, al demonio, all’impurità, al peccato 15 . La Morte è, dunque, una donna dai lunghi capelli al
vento, spesso connotata come una donna vecchia, anche per l’espressione del volto. Solo in un
secondo momento, a partire dalla metà del XVI secolo, la rappresentazione della Morte è ormai
uno scheletro perfetto, come nel Trionfo di Subiaco, dove la Morte è uno scheletro dalle lunghe
chiome scure, a cavallo, che brandisce una spada e una falce rivolta verso il basso. Le armi sono
una costante nella rappresentazione della morte: la falce in modo particolare è un attributo
caratteristico della Morte secca, con essa la Morte miete la vita nel momento del suo trionfo; in
alternativa, la Morte è armata di arco e frecce, lance o di una spada, elementi più vicini alla
tradizione cristiana, mentre la falce deriva dall’influenza classica 16 . Per quanto concerne la fisicità
stessa della morte, dopo le prime rappresentazioni sotto forma di cadavere in decomposizione,
anche con dettagli macabri e con l’esibizione delle membra deteriorate dai vermi, si giunge alla
rappresentazione dello scheletro quale espressione sintetica del macabro che, soprattutto in Italia,
rispondeva meglio alla sensibilità collettiva. Le ragioni individuate da Tenenti sono
sostanzialmente due: «da un lato esso, senza escluderlo del tutto metteva in sordina il macabro ed
evitava l’esibizione delle membra sfatte o corrotte dai vermi […] dall’altro, lo scheletro si
presentava come un’immagine diretta e realistica della Morte, quale appunto lo richiedeva la
sensibilità collettiva» 17 .
Altra caratteristica dell’iconografia della Morte è la rappresentazione equestre: infatti, a partire
dal Trecento in Italia si sviluppa il motivo della morte a cavallo, che nasce dalla contaminazione
con la figura del quarto cavaliere dell’Apocalisse 18 . Ravvivando un passo dell’Apocalisse (6, 7-8), in
Italia gli artisti danno vita alla rappresentazione della Morte come uno scheletro dai lunghi capelli
– che ricordano la sua iniziale identificazione con la donna – a cavallo di un destriero, brandendo la
spada e la falce 19 . Questa rappresentazione rimanda al divampare delle maggiori epidemie, anche
da un punto di vista cronologico e conferma l’idea che la peste sarebbe stata uno dei principali
motivi ispiratori dei temi macabri 20 . Gli esempi della Morte a cavallo sono molteplici, a partire dal
Trionfo di Subiaco e di Palermo fino a quello di Bruegel. In altre tradizioni iconografiche, come già
visto in Bruegel, la Morte avanza minacciosa ritta su di un carro, decorato con crani e, al suo
passaggio, schiaccia masse di persone, brandendo una grande falce. L’immagine del carro rimanda
a quello dei monatti, dunque, ancora una volta alla peste. Costoro, infatti, durante la peste, come
scrive Manzoni, «erano serventi pubblici […] addetti ai servizi più penosi e pericolosi della
pestilenza: levar dalle case, dalle strade, dal lazzeretto, i cadaveri; condurli sui carri alle fosse, e
sotterrarli; portare o guidare al lazzeretto gl’infermi, e governarli; bruciare, purgare la roba infetta
e sospetta» 21 .
L’iconografia del Trionfo si lega dunque alla tragicità di eventi storici, come la peste che è tra gli
elementi che ne hanno determinato l’affermazione e il successo in Europa. Tuttavia, il tema
richiama anche elementi della tradizione carnevalesca, tipici della cultura popolare, che mette in
relazione il carnevale – ovvero carnes levare (nel senso di “abbandonare l’uso delle carni”), come
ricorda Cardini 22 – con la fede nella renovatio mundi, secondo l’inesauribile «alternarsi della vita e
della morte, nella natura e nell’uomo, all’immagine consolante dell’eterno ritorno» 23 . La cultura
popolare, in accordo con il rinnovarsi della vita e del ciclo agrario, si abbandonava a scherzi, balli,
mascheramenti, travestimenti e licenze di ogni tipo che rientravano in un rituale volto ad
assicurare fertilità e abbondanza. Questi festeggiamenti, a ben vedere, erano fondati sul
sovvertimento dell’ordine sociale e sul capovolgimento della tradizione, mantenendo una forte
componente contestativa 24 . «Il riso carnevalesco coincideva con l’esplosione di vitalità della gioia
di vivere» 25 , e questo fa sì che si possa parlare di una vera e propria regressione ad una sorta di
«animalità primordiale» 26 che rendeva il Carnevale un momento pericoloso dell’anno 27 . Nel
periodo di Carnevale, difatti, i membri della parte inferiore della struttura sociale conoscono una
rotazione sociale, se pure controllata e parte di un rituale che si conclude ripristinando i ruoli, le
gerarchie, le distanze sociali 28 .
Con il Trionfo della Morte il ciclo vita/morte e l’ordine sociale vengono messi in crisi: si può
parlare, dunque, di un ribaltamento sul modello del folklore carnevalesco. La vis comica della
Morte, nel Trionfo come nella Danza, è trasgressiva e dissacrante, l’ironia diviene rovesciamento
della tradizione. In alcuni esempi di Trionfo della Morte, la Morte indossa una corona e ha i simboli
del potere regio, come il mantello, in quanto regina del «breve burlesco regno» (si veda ad
esempio il Trionfo di Clusone) 29 .
Il ribaltamento dell’ordine costituito, operato nel Trionfo della Morte, richiama le coppie di
opposti sacro/profano e cristianesimo/paganesimo. Il tema della Mors triumphans, difatti, giunge
alla pittura a partire dalla cultura popolare, nella quale elementi pagani coesistono al fianco della
cultura cristiana, ritualizzando feste e manifestazioni che rimandano al rovesciamento
carnevalesco 30 . A queste coppie di binomi si affiancano anche le opposizioni Carnevale/Quaresima,
maschio/femmina, da cui il contrasto tra il carattere di comico capovolgimento del Carnevale e il
periodo di penitenza della Quaresima che segue. Quest’ultima si apre con il Mercoledì delle
Ceneri, per consentire la purificazione e la santificazione, attraverso anche pratiche ascetiche –
come il digiuno, la rinuncia alla carne, la preghiera, la carità – nell’ottica del ritorno a Dio e della
rinascita di Gesù Cristo. Dalla suddetta opposizione nasce un contrasto, che si traduce in un
«combattimento rituale» 31 , tradotto in pittura da Bruegel il Vecchio all’interno dell’opera La
battaglia fra Carnevale e Quaresima 32 . In essa il pittore mette in scena lo scontro tra i cattolici,
rappresentati non a caso da una figura scheletrica e malinconica in perenne digiuno, ovvero la
Quaresima, e i protestanti che sono raffigurati, invece, dal pasciuto principe Carnevale 33 .
Claudia Donnini
NOTE
1 C. Frugoni, Paure medievali. Epidemie, prodigi, fine del tempo, Bologna, Il Mulino, 2020, pp. 73-98.
2 P. Ariès, Storia della morte in Occidente, Milano, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 1998 (2017), p. 42.
3 Ivi, p. 123.
4 P. Ariès, Storia della morte, cit., p. 123.
5 C. Frugoni, Paure medievali, cit., pp. 87-88.
6 G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Roma, Grandi economici tascabili Newton, 1997, pp.
1149-1150.
7 Ibid.
8 A. Tenenti, Il senso della morte, cit., pp. 410-466.
9 Ivi, p. 410.
10 A. Tenenti, Il senso della morte, cit., p. 435.
11 Ivi, p. 450.
12 A. Tenenti, Il senso della morte, cit., p. 431.
13 Cfr. A. Tenenti, Il senso della morte, cit., pp. 39-45. Per l’esperienza artistica di Bruegel vd. R.-M. Hagen – R. Hagen,
Pieter Bruegel il Vecchio, Köln, Taschen, 2016.
14 Cfr. A. Tenenti, Il senso della morte, cit., pp. 416-418.
15 cfr. J. Delumeau, La paura in Occidente (Storia della paura nell’età moderna), Milano, Il saggiatore, 2018, pp. 400-
449.
16 Cfr. A. Tenenti, Il senso della morte, cit., pp. 416-418.
17 A. Tenenti, Il senso della morte, cit., p. 426.
18 Ivi, p. 419.
19 Vd. Il passo biblico: «All’apertura del quarto sigillo udii il quarto Vivente dire: “Vieni!”. Ed ecco, apparve un cavallo
verdastro; colui che lo montava aveva nome Morte, e l’Ade lo seguiva; fu data loro potestà di portare lo sterminio
sulla quarta parte della terra con la spada, la fame, la peste e con le fiere della terra». Per l’iconografia della Morte cfr.
A. Tenenti, Il senso della morte, cit., pp. 419-420.
20 Ivi, p. 419.
21 Cfr. A. Marchese (a cura di), Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Milano, Mondadori, cap. XXXII, p. 722.
22 Cfr. F. Cardini, I giorni del sacro. Il libro delle feste, Milano, Editoriale Nuova, 1983, p. 232.
23 P. Camporesi, Il paese della fame, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 187.
24 Cfr. F. Cardini, I giorni del sacro, cit., pp. 232-241.
25 P. Camporesi, Il paese della fame, cit., pp. 187-188.
26 Ivi, p. 187.
27 Cfr. F. Cardini, I giorni del sacro, cit., p. 240.
28 P. Camporesi, Il paese della fame, cit., p. 188.
29 F. Cardini, I giorni del sacro, cit., p. 237.
30 Cfr. F. Cardini, I giorni del sacro, cit., pp. 240-248.
31 F. Cardini, I giorni del sacro, cit., p. 237.
32 Bruegel il Vecchio, La battaglia fra Carnevale e Quaresima, 1559, olio su tavola, Vienna, Kunsthistorisches Museum.
33 R.-M. Hagen– R. Hagen, Pieter Bruegel il Vecchio, Köln, Taschen, 2016, pp. 49-51.
BIBLIOGRAFIA
Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli (BUR), 1998
(2017).
Piero Camporesi, Il paese della fame, Bologna, Il Mulino, 1978.
Franco Cardini, I giorni del sacro. Il Libro delle feste, Milano, Editoriale Nuova, 1983.
Jean Delumeau, La paura in Occidente (Storia della paura nell’età moderna), Milano, Il Saggiatore,
2018.
Chiara Frugoni, Paure medievali. Epidemie, prodigi, fine del tempo, Bologna, Il Mulino, 2020.
Rose Marie Hagen – Rainer Hagen, Pieter Bruegel il Vecchio, Köln, Taschen, 2016.
Angelo Marchese (a cura di), Alessandro Manzoni, I Promessi sposi, Milano, Mondadori, cap. XXXII.
Alberto Tenenti, Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento (Francia e Italia), Torino,
Einaudi, 1989.
Giorgio Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Roma, Grandi economici
tascabili Newton, 1997.
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