INTRODUZIONE
Quando ci si vuole occupare di una cultura, un’etnia, una civiltà, un popolo, sarebbe necessario prima farsi un’idea di cosa significhino i termini ‘cultura’, ‘etnia’, ‘civiltà’, ‘popolo’ etc.. Nel caso delle popolazioni germaniche si ha l’idea che appaiono nel corso della storia come una massa indefinita di persone alte, bionde e tendenzialmente selvagge che vivevano nel Nord Europa non romanizzato. Tale idea è in primis il portato di tanti secoli di storiografia classicista che in diverse misure ha raccolto le descrizioni contenute nelle fonti romane mantenendone principalmente gli aspetti negativi. Tutto questo si è manifestato in primo luogo nell’interpretazione datane dagli intellettuali mediterranei fino al Risorgimento, stigmatizzando il rapporto Roma=Civiltà e Germani=Barbarie. Ogni volta che, nel corso dei secoli, i rapporti con il mondo a Nord delle Alpi si irrigidiva riemergevano potenti le antiche etichette anti-barbariche.
Ma chi erano davvero i Germani?
All’inizio di ogni riflessione su qualunque argomento è fondamentale intendersi, o almeno rimanere in equilibro precario, sui termini, d’altronde, come diceva Wittgenstein, la lingua è un labirinto di strade e perdersi è un attimo.
Da dove viene la parola germani?
La sua etimologia era incerta nell’antichità e rimarrà incerta probabilmente per sempre, perciò mi limito a riportare le ipotesi principali fatte al riguardo. Fin dall’inizio furono proposte origini celtiche, latine o germaniche per tale vocabolo che si tentò di scomporre in almeno due parti. Si è discusso molto sull’etimologia di ger- (pronunciato gher). Alcuni tentarono di collegarlo al germanico ger, ossia ‘lancia da tiro’, così interpretando l’intera costruzione come ‘gli uomini delle lance’. Altri proposero il celtico gar col senso di ‘vicino’, dato che i galli vivevano accanto ai germani. Tra le proposte più note vi è anche un collegamento con il latino germen, ossia ‘fratello’, attribuendo così ai popoli del Nord una comunità intesa come unione familiare.
Come vediamo le opinioni in merito sono plurime ma come ci spiegherà l’antropologia storica non dovremo farci schiavi di un termine che unisca in modo ‘essenziale’ un gruppo di uomini e donne come questo, poiché non avrebbe senso. Le scuole storiografiche nazionaliste ottocentesche suddividevano i Popoli secondo un miscuglio di essenzialismo filosofico e razzismo scientifico che conferiva a ognuno di loro un carattere unico e geneticamente differente da quello delle nazioni vicine.
Per buona pace di questi storici la realtà era ben più complessa. Non esiste una popolazione umana che sia composta solo di se stessa o che si differenzi dalle altre in modo monolitico. L’antropologia, l’etnologia e la biologia ci hanno dimostrato come la propensione dell’uomo a differenziarsi dall’Altro sia un fattore culturale piuttosto che fisico. Le identità, le appartenenze sono parte ‘irrinunciabile’ dell’essere uomo e dell’essere nel mondo, tuttavia non si presentano come scatole chiuse e immobili ma, al modo di Geertz, come reti interconnesse, fluide e soggette al cambiamento e all’evoluzione.
COS’È UNA CULTURA E COS’È UN’ETNIA?
Come ho detto sopra, le parole sono importanti, e quando parliamo di uomini e di gruppi umani dovremmo tener sempre presente le sfumature semantiche dei concetti cultura ed etnia, altrimenti chi sa cosa pensate quando vi parlo di una cultura germanica o di un’etnia germanica.
Probabilmente la primissima definizione di ‘cultura’ nella storia dell’antropologia fu quella data da Edward Tylor nel 1871:
«La cultura è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine che l’uomo acquisisce come membro della società».
In questa accezione ci allontaniamo già significativamente dall’etimologia originale della parola, la quale deriva da cultus, participio presente di colĕre, ovvero ‘coltivare’ (quindi ‘coltivante’). Questo verbo si riferiva quindi all’avere cura di qualcosa e per gli antichi la cura della natura (del campo, dell’orto) non era separabile dalla cura degli Dei, così come del proprio spirito, tramite il pensiero. Ad ogni modo nel 1800 ‘cultura’ inizia a significare non più erudizione ma ‘insieme di costumi’ di una comunità. Il termine si separa così da una dimensione individuale per abbracciarne una comunitaria e connessa al sapere (lore, kunde) prodotto dal basso (folk, Volk).
Ad ogni modo anche dalla definizione di Tylor ci siamo orma distanziati (già con Boas) poiché, come dice Sökefeld, egli era un evoluzionista e in quanto tale trattava le culture singolarmente, ossia trattava l’esistenza di una sola cultura (quella umana), verso la quale tutti gli uomini sarebbero conversi. Per buona pace anche dell’antropologo britannico, il concetto di cultura è anche plurale e si nutre di una contraddizione priva di soluzione di continuità. Nel corso del tempo gli studiosi hanno tentato di trovare definizioni ma si rendevano paradossalmente conto che, se da una parte si tentava di mettere in luce l’artificialità del concetto di cultura, dall’altra si scopriva che era proprio il riflettere sopra questo concetto che lo creava. La conseguenza di tale irrisolvibile questione è stato l’abbandono da parte degli etnologi dell’indagine sul suo significato.
A questo punto potremmo concludere che per capire cos’è una ‘cultura’ dovremmo cessare di volerla capire a tutti i costi e, in un certo senso, accettare che essa è parte inscindibile dell’uomo, un po’ come l’istinto alla sopravvivenza e, ogni volta che si tenta farne qualcosa di troppo rigido o troppo flebile, ci allontaniamo dal suo reale significato.
Uno dei più grandi antropologi contemporanei, Philippe Descola, detentore della cattedra che una volta fu di Levi-Strauss, ci ricorda che la costruzione fatta in Europa intorno al termine ‘cultura’ non può che rimandarci alla traumatica separazione avvenuta in Occidente secoli or sono tra ‘cultura’ e ‘natura’, tra humains e non-humains. Egli, comparando diverse civiltà, mostra come nella nostra società, soprattutto negli ultimi secoli, si sia separata a livello sostanziale la dimensione di ciò che concerne l’umano e ciò che concerne tutto il resto. Il primo è tutto ciò che è vivo, culturale, creativo, pensante il secondo è tutto ciò che morto, inerte, sterile, catalettico. La conseguenza di tutto ciò è stato di ridurre tutta la realtà all’uomo stesso, così da arrivare a pensare che l’unica cosa che trattiene l’uomo dal controllo totale della natura sia l’uomo stesso. Questo pensiero è sfociato nei deliri di onnipotenza visti negli ultimi secoli, veicolati tramite religioni, scienze, ideologie, tecnologie e, nel caso di concetti come quello di cultura, in una spoletta tra un uso scientifico macchinoso e forzato e un abbandono, una resa incondizionata al far finta che non esista.
Questa tragedia tipicamente Nostra, non ha probabilmente alcuna possibile dimora in altre ‘culture’, in altri paradigmi di pensiero in questo tempo o in altri. Sarebbe stato interessante chiedere a un ‘barbaro’ in che modo egli intendesse questi concetti. Forse un Greco, un Romano, un Gallo, un Germano, ci avrebbero parlato di mores, costumi, tradizioni, genealogie, ma non avrebbero assolutamente compreso la nostra angoscia di trovare qualche verità scientifico/razionale dietro a tali concetti.
Volevo dire due parole anche sul concetto di etnia, altra parola estremamente problematica e che soffre degli stessi sintomi del termine ‘cultura’.
Etnia viene dal greco ethnos, che indicava un gruppo di persone (gens in latino) accomunate dalla propria discendenza. Quindi ciò che conta in alcune civiltà è di chi tu sei, o a chi appartieni, wem gehörst du, come ancora oggi chiedono gli anziani dei nostri paesini in Europa. È fondamentale per l’uomo sapere da dove si proviene. Così come nel discorso precedente ritorna il nostro bisogno di distinguerci dall’Altro, il nostro bisogno atavico di identificare la nostra identità. A questo proposito gli studiosi hanno parlato di etnogenesi, ossia del processo di creazione di un gruppo etnico tramite la graduale e costante differenziazione dagli altri.
Il termine greco arrivò sino al 1800 quando il gigante della sociologia Max Weber tentò di darne una precisa definizione in Abstammungsgemeinschaft, ossia una comunità con una discendenza comune, anche se solo presunta. Nel corso nel 1900 esso è stato più o meno ridotto a una costruzione sociale inventata dagli stessi uomini facenti parte (una ethnicity awareness secondo Vermeulen), o che magari si illudono di far parte, di un certo gruppo. Rispetto a ‘cultura’, ‘etnia’ è un termine più materiale, il quale si sovrappone molte volte con ‘popolazione’, ‘gente’, e non è un caso se in tedesco un suo sinonimo sia Volksgruppe (gruppo che fa popolo). Nonostante antropologi ed etnologi abbiano cercato sempre più di mettere da parte questa parola un po’ per i soliti problemi di definizione, un po’ perché semplice costrutto sociale, essa, proprio per la sua connessione alle caratteristiche fisiche ed ereditarie dell’uomo, fu l’ovvio candidato per sostituire nel Dopoguerra il termine ‘razza’. Ciononostante, come possiamo immaginare, questa pesante eredità non fu mai davvero sostenuta e oggi anche ‘etnia’ vaga al limite del taboo linguistico e dell’oceano d’incertezza semantica dell’antropologia. D’altronde quando, nell’entusiasmo della Rivoluzione Scientifica, si iniziò a usare ‘razza’ non solo per classificare gli animali (probabilmente derivante dall’ant. Francese haraz nel senso di allevamento di cavalli) ma anche per gli umani, si arrivò a rendere le differenze somatiche dei gruppi umani delle caratteristiche ‘essenziali’, monolitiche, unendole poi a caratterizzazioni comportamentali spirituali di vecchia data e a dir poco soggettive.
Dopo i grandi genocidi novecenteschi e col crollo dell’imperialismo si ritenne sacrosanto mandare in pensione questa parola, lasciando però un vuoto semantico là dove le persone hanno bisogno di riferirsi alle differenze fisiche della grande varietà umana. Come detto prima, inizialmente tale ruolo fu assunto da ‘etnia’, ma col passare del tempo anch’esso sta venendo bandito e relegato al campo dei costrutti sociali astratti. Perciò al giorno d’oggi ci ritroviamo in Occidente con un vuoto linguistico che non si ha il coraggio di colmare a livello accademico e che viene comunque colmato a livello non-accademico (anche maldestramente, continuando a usare ‘razza’). Soprattutto per la seconda ragione, sarebbe necessario trovare una parola politically accepted che serva per definire le differenze somatiche tra gli esseri umani e anche se non la troveranno gli antropologi lo faranno comunque i popoli d’Occidente, perciò meglio se partecipano anche i primi.
Ci sarebbe tantissimo da parlare ma d’altronde noi siamo storici perciò rimaniamo col focus sulla Storia. Ad ogni modo, un consiglio soprattutto per i lettori più giovani, non ricadete a oltranza nella trappola interpretativa occidentale di voler suddividere in scatolette la realtà (come la natura dalla cultura), studiare e fare Storia significa anche studiare e fare filosofia, filologia, arte, antropologia, sociologia, biologia, logica, fisica etc. etc. etc..
Ad ogni modo, adesso che abbiamo non-capito i concetti di etnia e cultura, possiamo passare a occuparci di etnia e cultura germanica. Rimanendo consapevoli della duttilità dei termini non possiamo far altro che principiare interrogando l’archeologia, dato che per i primi popoli definibili come ‘germanici’ non abbiamo fonti scritte.
DA DOVE PROVENGONO I GERMANI?
Come già saprete gli archeologi si sono risolti suddividendo le età dello sviluppo umano a seconda del materiale utilizzato per produrre gli strumenti, ad esempio pietra, rame, bronzo e ferro. Il primo problema che ci si presenta è che non tutte le civiltà si sono sviluppate allo stesso modo e con gli stessi tempi, basti guardare i popoli amerindi che nel 1500 erano avanzati ma non avevano mai conosciuto un’Età del Ferro.
Per questo, nel caso europeo abbiamo ben tre diverse periodizzazioni (forse di più), una per l’Europa Mediterranea, una per quella Centrale e una per quella del Nord.
In generale dobbiamo tenere presente che la lavorazione dei metalli si è diffusa generalmente da Oriente a Occidente ed è per questo che quando i Greci avevano già abbondantemente terminato la loro Età del Ferro (1030-700, Medioevo Ellenico), i Germani non l’avevano ancora conosciuta.
Ovviamente invece di partire dalla scoperta del Ferro dovrei introdurre l’argomento a partire dagli Indoeuropei, gli antenati primigeni dei Germani e della maggior parte di tutti i popoli d’Europa. Tuttavia il discorso diverrebbe enorme e non posso fare un articolo di settecento pagine, quindi, dati questi antenati comuni a Latini, Celti, Greci, Slavi, Germani, Ittiti, Persiani, Indiani etc., partiamo dalla prima Età del Ferro nord-europea, chiamata anche Età del Ferro Pre-Romana (Vorrömische Eisenzeit).
Gli archeologi identificano questo periodo con la collocazione geografica di alcune ‘culture’, le quali in questo caso non rispecchiano il concetto di cultura trattato sopra, bensì quello di ‘strato culturale’ (Kulturstufe). Quest’ultimo è il riferimento a una cultura materiale con caratteri comuni identificabili in un preciso spazio-tempo, ma non presuppone l’esistenza di affinità politiche, sociali, e altre appartenenti all’ambito della cultura immateriale.
Una volta chiarito questo comprendiamo come l’apparire dei Popoli nella storia sia legato a un processo graduale, dialettico, in continua evoluzione, in parte consapevole e in parte no. Così quando pensiamo ai primissimi Germani dobbiamo semplicemente immaginarci una serie di tribù semi-nomadi che dimoravano tra il Nord della Germania e il Sud della Scandinavia e da una parte confinavano con i Celti, dall’altra con Sciti, Slavi e a Nord dai forse più antichi Sami.
Le età del ferro e le culture:

- Età del Ferro Pre-Romana (750 a.C. – 60 a.C.). Cultura delle Urne a Casa, Cultura di Billendorf, Cultura Turingia, Cultura di Jastorf, Gruppo di Naumburg, Cultura di Przeworsk.
- Età del Ferro Romana (60 a.C. – 350 d.C.)
- Età del Ferro Germanica o Età delle Migrazioni (Völkerwanderungszeit, 350 a.C. – 455 d.C e oltre..)
Come vediamo in queste mappe la cultura germanica è frutto di quel proliferare di varie ‘culture’, commistioni, influenze, relazioni, avvenute tra prima del 750 a.C. fino all’Età delle Migrazioni (nella storiografia italiana nota come Invasioni Barbariche) in quella zona geografica.
Ma quali erano i caratteri comuni di questa società?
Non vi è assolutamente spazio per una disamina decente di tutte le caratteristiche, ad ogni modo vediamo di fermare alcuni punti.
L’elemento che più accomunava questi agglomerati etnici era la famiglia linguistica e l’influenza preponderante delle culture celtiche centro-europee come Hallstatt prima e La Tène dopo. Si ritiene che la grande capacità di lavorazione dei metalli dei Germani fosse stata ereditata da queste culture. In generale questi popoli vivevano di un’economia di sussistenza basata su agricoltura, pesca, allevamento e caccia e generalmente ricevevano con un certo ritardo i cambiamenti che provenivano dalle culture più a sud, ad esempio nei modelli insediativi o nei tipi funerari. Caratteristico dell’Età del Ferro Pre-romana era la sepoltura in campi di urne (Urnenfelder, Reihengräber) di uguali dimensioni che raccontano di una scarsa stratificazione e una sostanziale eguaglianza sociale, a differenza della situazione celtica in cui si avevano grandi tombe principesche a inumazione, nelle quali il corredo era ricchissimo e testimoniava circuiti commerciali molto ampi. Altro elemento ‘tipico’ era la/il cosiddetta/o langhus (langhaus, longhouse, casa lunga), ovvero un edificio presente in Europa sin dal Neolitico ma rimasto a lungo la costruzione di riferimento dei popoli nordici (fin’oltre l’Era Vichinga). Essa nacque come casa contadina dalla forma allungata con poche entrate, dalle pareti basse, nella quale potevano vivere più famiglie e vi era uno spazio per alloggiare il bestiame e immagazzinare il raccolto (chiamate anche Wohnstallhäuser, ossia case abitabili sia dagli uomini che dagli animali). Quest’edificio multifunzionale era essenziale per la vita nei paesi freddi, poiché avevi tutto ciò di cui avevi bisogno nel medesimo luogo e dentro potevano viverci anche decine di persone.
Nella nostra disamina della cultura germanica la ‘casa lunga’ è fondamentale, poiché avrebbe determinato alcune delle strutture basilari non solo del modus vivendi ma anche della Weltanschauung dei popoli del Nord. Questo perché tale dimora, evolvendosi e cambiando insieme alla società nella quale era inserita, divenne col tempo la dimora tipo dei grandi signori, dei capi-tribù, dei duces e infine dei re che guidavano il popolo. Così il langhaus di epoca più recente viene chiamato dagli archeologi anche Meadhall (mjødhall, Sala dell’Idromele), poiché divenne il luogo in cui la consorteria, le famiglie, i guerrieri legati a un capo, si riunivano per fare politica, banchettare, festeggiare e fare vita sociale davanti o un’ottima birra. Lì si raccontavano le storie, le imprese, si cantavano canzoni epiche e goliardiche e s’intessevano trame, relazioni, si rafforzavano le amicizie. Si ritiene che il nome in antico germanico con il quale ci si riferiva a questi luoghi fosse sal/saal, antenato del ted. Saal, dell’ol. zaal, is. salur, dan. sal, fr. salle, rus. zal, it./sp. sala etc., e non sembra un caso che tra i Longobardi la parola sala, sopravvissuta in tanti toponimi italiani, si riferisse a un centro di potere.
Inoltre la conoscenza di questo oggetto peculiare ci aiuta moltissimo nell’approccio con tutta la tradizione religiosa e mitologica, nella quale le sale (dette anche Halle) sono un elemento ricorrente. In tal caso si pensi alle sale degli dei, di cui la più nota era il Valhöll, al leggendario tempio di Uppsala, alla sala del Re Hrothgar nel Beowulf, così come alle grandi case signorili descritte nelle saghe. Qui sotto un esempio di ricostruzione di edifici germanici:
Aufbau germanischer Siedlungen (Creative Commons) – ZDFmediathek
Appartenente al tempo della Cultura di Jastorf, forse quella più importante per l’archeologia germanica, è il famosissimo Calderone di Gundestrup, manufatto celtico, ma ritrovato in una torbiera danese. Esso testimonia la grande connessione e influenza che il Nord Europa ricevette dalle popolazioni più a Sud, provata anche dalla diffusione progressiva dell’oppidum, il centro urbano fortificato e sopraelevato tipico dei Celti, così come dall’usanza di aggiungere le armi al corredo tombale. La graduale stratificazione sociale e l’arricchimento che le genti germaniche vissero nel passaggio tra l’età pre-romana e quella romana, ossia quando Cesare arrivò al confine del Reno, portò alla formazione di gruppi di guerrieri di professione legati da vincoli clientelari (comitati/warbands/Gefolgschaften) e che si prodigavano per il controllo del territorio, delle vie di comunicazione e soprattutto delle reti commerciali.
CONCLUSIONE
Comunque sia, anche se per i Germani le età dei metalli sarebbero durate ancora 3-4 secoli, il I sec. a.C. segna il loro ingresso nella storia e in una costante attenzione letteraria da parte di Greci e Latini, perciò interrompo qui il nostro cammino alla ricerca delle primordiali origini di questa ‘cultura’. Magari in altri articoli parleremo delle fonti scritte che trattano di loro e più nello specifico di alcuni aspetti della loro società, lingua e religione che li avrebbero portati a essere quei popoli che conosciamo quando l’Europa inizia era già cosparsa dalle rugiade del Medioevo.
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BIBLIOGRAFIA
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M. Sökefeld, Der Kulturbegriff in der Ethnologie und im öffentlichen Diskurs – eine paradoxe Entwicklung? In: Stöber, Georg (ed.): ‘Fremde Kulturen’ im Geographieunterricht. Analysen – Konzeptionen – Erfahrungen. Studien zur internationalen Schulforschungen, Vol. 106. Hannover: Hahn, pp. 119-137.
H. Vermeulen, C. Govers, The Anthropology of Ethnicity: Beyond Ethnic Groups and Boundaries, Het Spinhuis, 1994.
Link:
Unruhige Zeiten – Das dritte Jahrhundert vor Christus @ Archäologie Online (archaeologie-online.de)
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