agraria-fascista

Il programma di S. Sepolcro del 1919 non cita esplicitamente il problema contadino, ma dopo il
consolidamento dei rapporti con gli agrari i fascisti puntarono a diminuire il numero dei braccianti (visti con
sospetto per la loro vicinanza alle idee “sovversive”) e a favorire la mezzadria al posto dei piccoli proprietari
in perenne difficoltà. Da questo punto di vista il fascismo non inventava nulla di nuovo ma riproduceva
timori e interessi dei grandi proprietari.


L’opinione di Mussolini sulle questioni agricole si può estrapolare da due interventi: il discorso
dell’Ascensione del 1927 e la prefazione a un libro dello studioso tedesco Korherr del 1928.


Nel discorso dell’Ascensione, Mussolini parte da un’analisi del popolo italiano “dal punto di vista della
salute fisica e della razza”, intesa come “espressione fisica”. Cita poi i dati sulle diverse malattie presenti nel
paese e il quadro presentato è tutt’altro che ottimista, tanto che gli interventi proposti sono presentati come
necessari per evitare il rischio di un serio calo demografico. Per il duce solo una rinnovata potenzialità
demografica, che consenta di arrivare a metà secolo con 60 milioni di abitanti, potrà permettere
l’espansionismo italiano. In un passo successivo si scaglia perciò apertamente contro l’urbanesimo
industriale e la piccola proprietà, accusate di “portare alla sterilità le popolazioni” e lega la ruralizzazione
dell’Italia all’espansione demografica, spiegando che per tali ragioni vuole aiutare l’agricoltura.


Nella prefazione al libro di Korherr comincia da una nota più allarmista e razzista, sostenendo che “l’intera
razza bianca dell’Occidente può venire presto sommersa dalle altre razze di colore che si moltiplicano con un
ritmo ignoto”. Bisogna perciò intervenire sul deficit demografico, causato dall’urbanesimo “edonista e
borghese” attraverso il ritorno alla terra, ruralizzando l’Italia per riuscire a mantenere fino a 60 milioni di
abitanti, capaci di “far sentire il peso della loro massa e della loro forza”. Come nel discorso
dell’Ascensione, anche qui il progetto ruralista si lega alla volontà di crescita demografica e di espansione.

La prima fase liberista della politica agraria del regime, trainata dalle esportazioni, è un periodo positivo e
tale da essere considerato uno dei migliori dell’intera storia agraria italiana. In questo periodo ci furono
notevoli processi di modernizzazione, con l’aumento dell’uso di fertilizzanti e della meccanizzazione e un
regime di inflazione che permise a un maggior numero di contadini di accedere alla proprietà della terra
attraverso i meccanismi del mercato. L’Italia era strettamente legata ai mercati esteri per il bisogno di
importare prodotti-base come carne e frumento e di esportare frutta, vino, olio ecc. Ciò aveva causato un
notevole disavanzo della bilancia commerciale, tale da provocare una spinta al ribasso della lira. La battaglia
del grano, che continuerà per tutta la durata del regime, fu perciò ideata per pareggiare la bilancia
commerciale, aumentare la produzione cerealicola e sopperire così al fabbisogno nazionale senza
importazioni. Annunciata alla Camera il 20 giugno 1925, essa partì con un Comitato Permanente per il
Grano creato per studiare i mezzi per accrescere la produzione di cereali. Tra le prime misure attuate ci fu
l’applicazione di alti dazi all’importazione di grano, che aumentarono ogni anno a causa di motivazioni
economiche più generali, in particolare la “quota 90”: il tasso di cambio lira-sterlina fissato a 90 era troppo
elevato per l’economia italiana e portò all’effetto non voluto di diminuire il livello generale dei prezzi
all’ingrosso senza diminuire il costo della vita. A questo punto si fu costretti, per non far crollare il prezzo
del grano e danneggiare i produttori, ad alzare sempre più le tariffe doganali. I cittadini italiani dovettero
perciò ridurre i loro consumi alimentari per gli effetti che la battaglia del grano aveva avuto sui prezzi e sulla
produzione nazionale.


Nel frattempo però c’era stata una forte produzione di cereali all’estero, tale da provocarne un calo dei prezzi
così conveniente da spingere a continuare comunque ad importarli. Vennero perciò presi nuovi
provvedimenti nel 1931-32 per obbligare le industrie molitorie ad utilizzare crescenti percentuali di grano
nazionale per la macinazione. Fu però un provvedimento insufficiente sia per la mancanza di controlli sulla
sua reale applicazione, sia perché non risolveva i problemi strutturali del mercato italiano. La maggioranza dei produttori infatti vendeva subito il raccolto stagionale per avere profitti immediati e ciò provocava
un’ampia offerta che faceva crollare i prezzi. Il governo cercò di reagire organizzando ammassi volontari ma
senza successo.


Si può dire che gli scopi della “battaglia” furono raggiunti per quanto riguarda la produzione quantitativa,
anche con aumenti della superfice coltivata a grano e migliorie nella produzione che portarono a una crescita
della produttività del 50% e alla riduzione delle importazioni di 1/3, ma per quanto riguarda la qualità i
raccolti non risposero alle aspettative, in quanto la maggioranza del grano prodotto non aveva un peso
specifico adatto alla macinazione. Inoltre la maggiore attenzione data alla cerealicoltura portò a una flessione
di altri settori, come l’ortofrutta, orientati verso l’esportazione e ora meno remunerativi. Si può dire che i veri
beneficiari della “battaglia del grano” furono i grandi proprietari terrieri, i capitalisti agrari e i maggiori
mezzadri, mentre danneggiò gli altri settori produttivi che altrimenti avrebbero probabilmente continuato la
fase espansiva che stavano vivendo nella prima metà degli anni ‘20.


L’altro grande campo di intervento della politica agraria fascista fu quello delle bonifiche. Già tra fine ‘800 e
inizio ‘900 la classe dirigente liberale aveva avviato alcuni lavori di bonifica volti al recupero di terre
agricole ma si trattava di interventi saltuari e poco incisivi. Il fascismo cercò di recuperare tali opere
mettendole al centro del suo progetto ruralista e puntando alla “bonifica integrale”. Almeno tre fattori
stimolavano tale impresa, lanciata a metà anni ’20: la volontà di calmare le masse agricole colpite dalla crisi
economica e dal blocco dell’emigrazione, la volontà di promuovere un ceto contadino proprietario
socialmente stabile e la volontà di rispettare la promessa della “terra ai contadini” fatta dopo Caporetto
neutralizzando la sua possibile carica eversiva.


La bonifica integrale fu guidata da una serie di leggi: la prima fu elaborata nel 1924 da un gruppo di tecnici
del Ministero dell’Economia guidati da Arrigo Serpieri, il massimo teorico del ruralismo fascista e
sottosegretario alla bonifica fino al 1935.


Nato a Bologna nel 1877, egli era agronomo e docente universitario. Dopo aver frequentato in gioventù gli
ambienti riformisti, aderì al PNF nel 1923 e venne eletto alla Camera nel 1924. La sua impostazione di
tecnico partiva dalla consapevolezza degli elementi deboli dell’agricoltura e dalla convinzione che solo
promuovendo un intervento pubblico organico e centralizzato sarebbe stato possibile migliorare la
produzione e superare l’arretratezza del settore. Inoltre, partendo dall’idea di un’Italia bisognosa di forza
politica, equilibrio sociale e “sanità morale”, riteneva necessaria una crescita demografica e che di essa fosse
parte centrale la popolazione rurale.


Alla legge del 1924 seguì la “legge Mussolini” del dicembre 1928, definita dal Gran Consiglio la “legge
fondamentale del regime”. Si trattava in sostanza di una provvedimento finanziario con forti stanziamenti
pari a 9 miliardi e 705 milioni di lire erogati fino al 1943. È significativo che la legge sia stata approvata
poco dopo l’Adunata nazionale dei rurali a Roma, il 4 novembre 1928: in coincidenza col decennale della
vittoria, i 50.000 contadini fatti confluire nella capitale vennero esaltati da Mussolini come gli artefici della
vittoria, poiché “non occupavano le officine ma le trincee!”. Si punta così a celebrare la “fanteria rurale”,
esaltata per aver vinto la guerra in passato e per essere il fattore decisivo della vittoria del fascismo adesso,
nella “guerra” per strappare terre fertili.


Il sistema della bonifica funzionava in questo modo: lo Stato si occupava dei lavori di bonifica vera e
propria, della profilassi antimalarica e della costruzione di strade e edifici per i coloni. La manodopera e i
coloni erano scelti dal Commissariato per le migrazioni interne mentre l’Opera Nazionale Combattenti
doveva attribuire i fondi agricoli e gestire coloni e infrastrutture. I principali lavori di bonifica terminarono
nel 1932 mentre negli anni successivi ci si concentrò maggiormente nella creazione delle “città di
fondazione” sulle terre bonificate. L’opera di bonifica portò risultati differenti in base alle diverse zone in cui
fu attuata: se in Sardegna essa ebbe successo per ridurre la disoccupazione e rinforzare il consenso, in Puglia
portò a un rafforzamento dei latifondisti locali a scapito delle aspettative e delle speranze dei braccianti di
avere un proprio podere. La più famosa e discussa opera di bonifica fu però quella dell’Agro pontino, avviata
nel 1931 e che portò a bonificare circa 80.000 ettari. Le condizioni di vita dei coloni erano molto svantaggiate: essi stipulavano un patto di mezzadria con l’ONC in base a cui, oltre a dividere la produzione a metà, dovevano anche rimborsare gli attrezzi, le sementi e tutto
ciò che l’ONC aveva anticipato, prestando all’occorrenza opere di corvèe gratuita. Ne derivava un forte
indebitamento con l’ONC (e quindi con lo Stato) che di fatto impediva di riscattare il fondo assegnato e di
realizzare così l’obiettivo previsto del passaggio alla proprietà della terra. I coloni erano inoltre sottoposti a
un forte controllo del loro comportamento politico, morale e religioso mentre molte delle terre assegnate
erano poco fertili. Le case coloniche erano spesso insalubri e poco funzionali e in molte zone la malaria,
sebbene ridotta notevolmente, era stata tutt’altro che debellata. Inoltre i servizi comunitari non funzionavano
in modo efficace e spesso c’erano prevaricazioni ed arricchimenti illeciti da parte dei funzionari dell’ONC.


Si verificò quindi un forte divario tra progetti e realtà. Il fascismo non riuscì pienamente a realizzare il suo
progetto di convertire le masse rurali senza terra in un ceto di piccoli proprietari socialmente stabili e fedeli
al regime. Di fronte a tale fallimento si rispose insistendo sugli aspetti propagandistici della creazione di
nuove città e della lotta contro le malattie. Il fascismo inoltre non riuscì nei suoi intenti anti-urbanisti poiché
il modo con cui fu gestita la bonifica contribuì a rafforzare l’idea di miseria associata alle campagne e
rilanciò l’idea della città come luogo di benessere e progresso.
Alla fine degli anni ‘30 se il regime era riuscito a mantenere il carattere agricolo del paese, ciò era avvenuto
senza che fossero migliorate le condizioni di vita, senza aver dato stabilità sociale al mondo rurale e senza
aver portato a una reale modernizzazione né a livello di produzione né a livello di rapporti di proprietà.

Marco Baggio

BIBLIOGRAFIA

Patrizia Dogliani, Il fascismo degli italiani: una storia sociale, UTET, Torino, 2014


Georges Canguilhem, Il fascismo e i contadini, Il Mulino, Bologna, 2006

Camillo Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana, Mondadori, Milano, 1980


Luciano Segre, La battaglia del grano, CLESAV, Milano, 1982


Mauro Stampacchia, «Ruralizzare l’Italia!»: Agricoltura e bonifiche tra Mussolini e
Serpieri (1928-1943), FrancoAngeli, Milano, 2000

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