INTRODUZIONE
La Public History è senza dubbio una disciplina – o quantomeno un approccio (public) alla Storia che fa leva sulla diversificazione dei metodi e mira a coinvolgere un pubblico più o meno ampio – che permette di riflettere e di ampliare l’epistemologia e il significato di alcuni termini. Se “educare alla complessità” e il saper “pensare storicamente” sono obiettivi allora è necessario declinare queste finalità nella contestualizzazione dello spazio e del tempo che il termine “geostoria” porta con sé. Pensare geo-storicamente diviene quindi possibile se si fa propria la riflessione di Braudel per cui: “[…] non esiste un problema sociale che non sia da inserire nel suo quadro geografico, in uno spazio in cui estendersi e con cui confrontarsi. […] La società vive di spazio, utilizza lo spazio, lo sistema e perfino lo consuma.”.
Dunque il rapporto tra le società umane e lo spazio da loro occupato risulta essere inestricabile fin dalle età più antiche e questa è un’acquisizione concettuale di fondamentale importanza per tutte le scienze dell’uomo. Nell’edizione del 2016 dello Zingarelli compare per la prima volta il lemma “geostoria” definita come: “disciplina che studia l’evoluzione delle caratteristiche di un territorio in relazione alla storia delle popolazioni che lo hanno abitato.” Di fatto prima di questo utilizzo è Fernand Braudel letteralmente a inventare la parola “geostoria” innestando un dibattito nelle opere successive ripreso da altri studiosi: “La geostoria è la storia che l’ambiente impone agli uomini condizionandoli con le sue costanti […] ma è anche la storia dell’uomo alle prese con il suo spazio, spazio contro il quale lotta per tutta la vita di fatiche e di sforzi e che riesce a vincere – o meglio, a sopportare – grazie ad un lavoro continuo ed incessantemente ricominciato. La geostoria è lo studio di una duplice relazione che va dalla natura all’uomo e dall’uomo alla natura, lo studio di un’azione e di una relazione mescolate, confuse, ripetute senza fine nella realtà di ogni giorno.”.
L’importanza di questa fase definitoria si è concretizzata, negli ultimi decenni, in studi storici che sulle differenze spaziali hanno costruito specifici modelli interpretativi. Lo storico americano Immanuel Wallerstein, ad esempio, ha ricostruito la nascita e la formazione del capitalismo come sistema economico mondiale attraverso lo spazio. Affermatosi nel Cinquecento, il capitalismo avrebbe dato vita ad economie-mondo, cioè a grandi spazi economici ordinati al loro interno in centri e periferie. La radice del capitalismo è da rinvenire nell’articolazione storica assunta dallo spazio. D’altronde quasi mezzo secolo prima della definizione di Braudel, Paul Vidal de la Blanche ha affermato in maniera lapidaria che “la storia di un popolo è inseparabile dalla contrada in cui esso abita.” Il termine nasce come approccio metodologico che permettesse di analizzare e dare conto dei fattori fisici e biologici che plasmano la vita
sociale, culturale, economica e che consentono di problematizzarla in maniera più ampia e complessa.
Lo stesso Fernand Braudel opera addirittura un’inversione di peso dell’oggetto studiato arrivando a teorizzare un nuovo approccio alla periodizzazione storica. Nel suo libro Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell’era di Filippo II individua tra scansioni differenti del tempo storico. La prima corrispondente a una storia “quasi immobile” che è quella dei rapporti tra l’uomo e il suo ambiente e che coincide in definitiva con la geografia umana intensa come “tempo geografico” e non come mera descrizione dei paesaggi. Al di sopra di questa storia si colloca una “storia lentamente ritmata” e di “lunga durata” che è quella strutturale che si occupa della vita delle economie e degli stati, a livello sociale ed economico, politico e delle trasformazioni. Infine la così detta storia évenementielle ovvero quella tradizionale in rapporto all’individuo. Egli giunge anche a teorizzare l’esistenza di due geostorie: una degli uomini e l’altra della natura come “due correnti che scorrono a velocità diverse” la cui interazione avrebbe potuto diventare un oggetto di studio. La geostoria assume così un carattere “generativo” che si basa su alcuni caposaldi come l’importanza dei fattori geografici nella spiegazione storica. Insomma nel Novecento si è andata sempre più affermando una concezione di ambiente come gamma di possibilità offerte alle diverse società umane: al determinismo geografico si contrappone il possibilismo per cui ogni società va introdotta nel proprio contesto ambientale.

UN APPROCCIO MULTIDISCIPLINARE E PUBLIC
Sulla scia delle considerazioni fatte in precedenza è a partire dagli anni Settanta che la geografia si rinnova e palesa la necessità di indagare gli aspetti legati alla percezione del paesaggio, visto non solo nella sua componente oggettiva ma anche in quella soggettiva e culturale. Lucio Gambi ha proposto di distinguere il paesaggio visibile da quello invisibile: il secondo è costituito dai processi storici che hanno dato vita al primo. In definitiva la forma del paesaggio può celarsi in una materia invisibile che è appunto la storia e compito della geografia è quello di “esaminare l’intima armatura di una società in funzione dell’organizzazione che tale società ha dato agli ambienti dove si è stabilita e opera”. Diviene cruciale il concetto di “paesaggio”. Turri ne dà una definizione come “una costruzione diacronica” e lo interpreta come “dato sensibile che permette di risalire ad un insieme concreto di forme e di fenomeni tra loro legati da mutui rapporti entro una porzioni di sfera terrestre” mentre – per riprendere una definizione più recente – Turco lo definisce come “una particolare manifestazione empirica della territorialità” che risulta visibile quando “un osservatore è capace di organizzare in un’unità visiva il processo di territorializzazione.” Tutto ciò ci riconduce all’idea che il paesaggio sia costituito da più “cose” in relazione tra loro e che non riguardi solo un oggetto, bensì una sintesi di elementi, naturali ed antropici, strettamente interconnessi. Una metafora interessante è quella di “paesaggio come teatro” dove si sottolinea il duplice ruolo di attore e spettatore nei confronti dei paesaggi: l’uomo contribuisce a determinare i caratteri di un territorio dove abita ma allo stesso tempo osserva ciò che ha compiuto per capire meglio la società in cui vive. Da qui la qualità del “vedere per capire” e “l’educazione a vedere” ovvero: “[…] un atto fisiologico fondamentale per ogni società al fine di stabilire un rapporto positivo con il territorio in cui vive, valorizzandone le potenzialità in quanto spazio di vita e difendendolo nei suoi valori simbolici in quanto specchio di sé.”.
Quindi paesaggio inteso nella sua dinamicità come portatore di valori da individuare grazie a “un allenamento dello sguardo” che somiglia allo “sguardo rasoterra” di Michel De Certeau che dall’alto scende verso il basso per mescolarsi alla vita che circola. Se il primo strumento di analisi del paesaggio è quello regressivo teorizzato da Marc Bloch già nel 1931 e consiste nello studio a ritroso dall’epoca più recente a quella più antica è anche vero che si possono teorizzare degli approcci o livelli di “sguardi” di un paesaggio. Uno di questi è quello “storico” che ci permette di pensare geo-storicamente. Per questa ragione gli elementi e le strutture che riconosciamo come tali vengono valorizzati come “patrimonio” e fatti oggetto di particolare tutela perché possano continuare a conservarsi. Lo sguardo geografico così diviene antitesi della retorica cartografica, della pretesa di fissità e oggettivazione che un pensiero rigido e deterministico porta con sé. La geografia può rappresentare un ponte connettore con altri saperi. Una geografia che segue le tracce dell’uomo sul territorio e che fa proprie tante narrazioni e punti di vista. Un concetto che ci può essere utile in questo senso è quello di “cronotopo”. Introdotto da Hermann Minkowski nel 1908, il termine è l’unione delle parole greche chrònos (tempo) e tòpos (luogo). In verità nasce nell’ambito delle scienze fisiche – relatività einsteniana –a indicare l’interpretazione dei sistemi di riferimento in maniera quadridimensionale (lunghezza, larghezza e profondità) e lo spazio. Nel mondo scientifico russo Vernadskij è tra i primi a recepire nelle proprie ricerche le nuove scoperte della fisica teorica e a considerare i concetti di spazio e tempo non più su un piano meramente speculativo e astratto, ma in base all’osservazione diretta, fisico-sperimentale, dei fenomeni. Spazio e tempo non sono per lui categorie esterne e assolute (in senso kantiano), rientrando al contrario tra le proprietà degli organismi viventi, i quali non vivono semplicemente nello spazio, ma, appunto, in uno spazio-tempo, in un cronotopo. Questo concetto viene poi preso in prestito in altri campi. In particolare Michail Bachtin, nel 1937, lo ha definito come il rapporto tra le coordinate temporali e spaziali che danno forma a un testo letterario. Si tratta dell’: “interconnessione sostanziale dei rapporti temporali e spaziali dei quali la letteratura si è impadronita artisticamente […] l’inscindibilità della spazio e del tempo […] i connotati spaziali e temporali in un tutto dotato di senso e concretezza.”.
Spostandoci nel campo geografico, il termine “cronotopo” viene utilizzato da Bertoncin e intenso come “oggetto territoriale che condensa in un certo tempo e un certo luogo e cristallizza energia e informazione.” Da qui l’autrice introduce due tipi di lettura: una denotativa che volge lo sguardo sul cronotopo così come appare e l’altra connotativa che si riferisce alla sua territorialità e al ruolo che svolge in essa. Ecco che una chiave di lettura del genere ci può aiutare a pensare geo-storicamente. Percepire un luogo, nelle sue coordinate spazio-temporali, ci permette di accedere a ricostruzioni diversificate abbandonando da un lato la scansione cronologica (appartenente alla storia) e dall’altro quella descrittiva (tipica della geografia descrittiva) riconducendo il nostro oggetto di studio a una dimensione multifattoriale che privilegia diversi approcci. Se allora la geografia – già etimologicamente – ha origine come “scrittura” e “disegno” del mondo, questa corrisponde anche a “uno dei bisogni più essenziali dell’intelletto umano: imporre un ordine e una struttura allo spazio smisurato, apparentemente illimitato”. Così il luogo territoriale o l’oggetto di studio sono sottoposti a interrogativi al fine di indagarne la loro stratificazione secondo diverse letture e di conseguenza divengono una possibilità – attraverso un processo di decostruzione-ricostruzione – di fabbricazione di nuovi mondi e prospettive. La Public History ci può essere di aiuto in quanto essa presuppone un approccio interdisciplinare e, all’occorrenza, basato sulla cooperazione di più “figure professionali”. Inoltre il public historian deve possedere abilità attraverso linguaggi eterogenei per rivolgersi a pubblici diversi. Per capire le informazioni racchiuse nei cronotopi queste competenze non possono che essere utili in quanto è necessario triangolare lo sguardo utilizzando molteplici linguaggi. Così come lo storytelling, quale arte di raccontare, se diventa un’azione sociale e triangolata (ex. il racconto chiuso del cronotopo) introduce processi dinamici che mettono in rete contenuti e saperi. Alcuni punti di incontro esistono. Bisogna di certo partire da una predisposizione mentale – come scrive John Goodman – che accetti l’idea della molteplicità delle versioni e delle visioni del mondo e che “tutto ciò che veniamo a sapere del mondo è contenuto nelle versioni corrette che ne diamo”: “Parlare di contenuto non strutturato, o di un dato non concettualizzato, o di un sostrato senza attributi, vuol dire sconfiggersi con le proprie mani; infatti il parlare impone struttura, concettualizza, assegna proprietà […] Possiamo avere parole senza un mondo ma non mondi senza parole o simboli.”
Gionata Grassi
Fonti:
F. Braudel, Storia misura del mondo, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 78; p. 100
http://dizionaripiu.zanichelli.it/…/2015/11/19/geostoria/
I. Wallerstein, Comprendere il mondo. Introduzione all’analisi dei sistemi-mondo, Asterios, Trieste, 2013 P.Vidal de la Blanche, Tableau de la géographie de la France, Librairie Hachette, Paris, 1903 in I.
Mattozzi, Chi ha paura delle geo-storia? In (a cura di) L.Coltri, D. Dalola, M. Rabitti, Geo-storie d’Italia. Un’alleanza possibile, Cenacchi Editore, Bologna, 2013
F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’era di Filippo II, Einaudi, Torino, 2002
L. Gambi, Una geografia per la storia, Einaudi, Torino, 1973
E. Turri, Antropologia del paesaggio, Edizioni di Comunità, Milano, 1974, p. 73
A. Turco, Il paesaggio come configurazione della territorialità in (a cura di) S. Aru, F. Parascandolo, M. Tanca, L. Vargiu, Sguardi sul paesaggio, sguardi sul mondo, FrancoAngeli, Milano, 2012, p. 35
E. Turri, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Marsilio, Venezia, 1998, p.24
M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2009
S. Tagliagambe (a cura di), Pensieri filosofici di un naturalista, Teknos, Roma, 1994
M. Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino, 2001, p. 231
M. Bertoncin, Logiche di terre e acque. Le geografie incerte del Delta del Po, Cierre, Verona, 2004
J. Brotton, La storia del mondo in dodici mappe, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 31
N. Goodman, Vedere e costruire il mondo, Laterza, Roma- Bari, 2008, p. 7
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