Rappresentanti della comunità ebraica di Berlino Est depongono una corona durante la cerimonia ufficiale per il Giorno della memoria delle vittime del fascismo (9 settembre 1951). In J. Herf, Divided Memory. The Nazi Past in the Two Germanys, Harvard University Press, 1997, p. 221. Fonte: SAPMO-BA, Berlin, Photoarchiv 1274/79 N.

In ogni società convivono letture contrapposte del passato. Nella maggior parte dei casi, queste diverse interpretazioni trovano espressione in quella che, per consuetudine, viene definita «memoria collettiva». Con quest’ultimo termine ci si riferisce alla misura in cui un determinato evento storico, o chiave interpretativa dello stesso, circolano all’interno di uno o più ambienti circoscritti. Ma memoria è anche «risorsa di mobilitazione» [Wofrum], è tutto ciò che riguarda l’elaborazione politica del passato e il suo utilizzo a fini di legittimazione. In una certa misura e in determinati contesti, la memoria si traduce quindi in storia militante, in un passato che diventa azione culturale, politica e sociale. In questo senso, è inevitabile e necessario che la memoria assuma caratteri conflittuali. Quando poi si ha a che fare, come nel caso della Shoah e della sua elaborazione, con un episodio particolarmente grave, la memoria può assumere anche il senso della «colpa collettiva» (Kollektivschuld).In questo senso, la Germania rappresenta con ogni probabilità uno dei casi più complessi ed emblematici del Novecento. Nel secondo dopoguerra, il desiderio diffuso della società tedesca era perlopiù quello di dimenticare o di superare il passato: non a caso, spesso si fa riferimento a un trauma psicologico collettivo superiore a quello della devastazione materiale [Corni]. In un contesto simile, perfino il ritorno degli ebrei alle proprie abitazioni originarie rappresentava un problema non indifferente.Nella Zona d’occupazione sovietica (Sowjetische Besatzungszone), in una prima fase,il rientro degli ebrei dall’esodo forzato o dalla reclusione nei campi di concentramento nazisti coincise con il rimpatrio degli esuli antifascisti. Ad essere persuasi furono molti ebrei di affiliazione comunista o socialdemocratica, larga parte dei quali aveva trovato rifugio in Unione Sovietica, Messico, Francia o Palestina dopo il 1933. Sulle prime, i comunisti tedeschi della Zona orientale incoraggiarono questo tipo di atteggiamento. Nel loro “Appello [Aufruf] al popolo tedesco” dell’estate 1945, i comunisti avevano espresso la loro volontà di rielaborare il passato recente in modo costruttivo. Le prime commemorazioni della Notte dei Cristalli, le ricerche e la narrazione promosse dal partito sulle origini dell’antisemitismo e del razzismo in Germania e, non ultime, le promesse di indennizzi per le vittime sembravano andare in una direzione precisa. L’invito al rientro in Germania era espressamente vivo nelle parole di Ottomar Geschke, che in seguito sarebbe divenuto segretario dell’Unione dei perseguitati dal regime nazista (VVN). Nel corso di una conferenza del novembre 1946, Geschke parlò con toni estatici della nuova realtà tedesca [Kessler]: «Le nostre tribolazioni e sofferenze ci designano come precursori dell’antimilitarismo, antifascismo e anti-reazionismo, ci predestinano come educatori nel popolo tedesco, per aiutare ad assicurare che il popolo volti le spalle e non ritorni più a ciò che è stato per dodici anni [si riferisce al periodo nazista]». Il ritorno di tutti i perseguitati dal nazismo, nella mente di Geschke, non rappresentava solo un elemento accessorio alla propaganda. In questa fase, l’esule veniva percepito nella sua dimensione “morale” di antifascista.Dietro l’entusiasmo inziale, tuttavia, si nascondeva ben altro.

Negli anni successivi, il rientro degli esuli di origine ebraica divenne un’arma a doppio taglio per il Partito socialista unificato di Germania (SED). Un aspetto particolarmente sensibile era costituito dalla definizione stessa di «vittima» o «perseguitato» che il futuro governo della Repubblica democratica avrebbe dovuto riconoscere agli ebrei rimpatriati o superstiti dell’Olocausto. La riconciliazione (Wiedergutmachung) della DDR, da questo punto di vista, rappresenta ancora oggi un terreno di ricerca particolarmente ostico. Da una parte, va osservato che la quantità di indennizzi elargita dallo Stato fu superiore a quella della BRD. Nominalmente, le autorità della SED si impegnarono in una massiccia campagna assistenzialista dai forti echi propagandistici: «A tutti i perseguitati dal regime nazista che possiedono un contratto di lavoro sarà elargita una paga addizionale di tre giorni lavorativi» scriveva l’organo centrale della SED (Neues Deutschland)nell’ottobre 1949, «Tutte le vittime […] riceveranno una prestazione sanitaria preferenziale, […] i loro figli riceveranno un’educazione garantita e curata dall’Ufficio centrale delle VdN [vittime del regime nazista]. La VVN avrà inoltre pieno controllo delle attività dell’Ufficio centrale delle VdN».D’altro canto, solo una piccola parte delle riparazioni andò ai singoli individui, larga parte dei quali ex-partigiani comunisti, i quali beneficiavano anche di una pensione di anzianità supplementare. Il numero di questi beneficiari, peraltro, era molto esiguo e non avrebbe mai superato le 50.000 unità. Le statistiche dell’estate 1949 mostravano già un quadro indicativo dell’idea che la futura DDR avrebbe avuto delle «vittime del fascismo». Nel Land della Sassonia-Anhalt risiedevano un totale di 7381 ex-vittime, il 70% dei quali era stato perseguitato per motivi politici, il 4% per affiliazione religiosa e il 12,7% per odio razziale; rimaneva poi un ulteriore 8% di ex-prigionieri, incarcerati per atti di sabotaggio o sobillazione. Ovunque, salvo che a Berlino, gli esuli costituivano una netta minoranza. L’assoluta maggioranza dei destinatari degli indennizzi (77%), invece, era costituita da membri dei partiti comunista e socialdemocratico, anche se quest’ultima quota costituiva solo il 10.5% del totale: uno scarto che, tra il 1949 e il 1950, sarebbe aumentato ulteriormente.

Infine, va precisato che la DDR si impegnò a elargire gli indennizzi sollo alle famiglie delle vittime che risiedevano sul territorio nazionale: ai perseguitati e ai loro parenti con residenza all’estero non sarebbe spettata alcuna quota.Per quasi trent’anni, la SED guardò con diffidenza al genocidio ebraico e al superamento della sua eredità. La memoria della Shoah si prestava male alla politica della storia (Geschichtspolitik) del regime e la figura dell’ebreo-vittima era difficilmente ascrivibile a una narrazione eroica. Dello sterminio degli ebrei si parlò sia all’interno della SED che nel suo quotidiano Neues Deutschland, ma l’argomento filtrò sottotono all’interno della memoria pubblica ufficiale, finendo per essere inglobato dal culto delle vittime del fascismo. Ad infierire sulla mancata elaborazione dello sterminio, inoltre, sopraggiunse anche la campagna “anti-cosmopolita” promossa dai sovietici e dalle autorità della DDR tra il 1948 e il 1953. Nemmeno la chiusura dei campi di concentramento sovietici, molti dei quali erano stati riconvertiti dai precedenti Lager nazisti, e la costruzione dei memoriali durante i primi anni Sessanta avrebbero apportato cambiamenti significativi alla narrazione della Shoah: i pannelli descrittivi installati presso Bunchenwald, Sachsenhausen e gli altri KZ (Konzentrationslager), le immagini e i percorsi didattici degli impianti museali ricostruivano solo in modo frammentario la realtà dei campi di concentramento e di sterminio. I diversi memoriali (Gedenkstätten)celebravano invece la Resistenza comunista, il ruolo dell’Unione Sovietica come liberatrice e il corso politico intrapreso dalla DDR come realizzazione della volontà degli antifascisti tedeschi. Negli anni Ottanta sopraggiunse un lieve cambiamento, ma le innovazioni furono molto limitate. Vennero costruite nuove installazioni dedicate esclusivamente all’Olocausto, come il «Museo della lotta di Resistenza e delle sofferenze del popolo ebraico» o la «Baracca 39» a Sachsenhausen. L’esclusione dalla politica commemorativa avrebbe continuato a colpire rom e sinti, omosessuali, vittime del programma “Azione T4” e “asociali”.

Edoardo Lombardi

BIBLIOGRAFIA:

- G. Corni, Storia della Germania. Da Bismarck a Merkel, il Saggiatore, Milano, 2017
- J. Schlör, G. Sarti, Ritornare o no? Gli ebrei tedeschi e la Germania postbellica, in "Contemporanea", n. 2 (1998).
- M. Wolffsohn, Jews in Divided Germany (1945–1990) and Beyond: Scrutinized in Retrospect, in Haim Fireberg, Olaf Glöckner (a cura di), Being Jewish in 21st-Century Germany, De Gruyter, Boston, 2015.
- R. Kessler, P. H. Rüdiger, Antifaschisten in Der SBZ. Zwischen Elitärem Selbstverständnis Und Politischer Instrumentalisierung, in “Vierteljahrshefte Für Zeitgeschichte”, n. 4 (1995).

ARCHIVI:
- ND-Archiv: (nd-archiv.de).

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